Source : Vita
Che cos’è il populismo? Un sintomo o il simbolo della crisi generale del principio di rappresentanza e legittimità delle istituzioni? Ideologia, mentalità, stile politico? O reazione democratica alla tecnocrazia? Un’intervista con Alain de Benoist
La globalizzazione crea pochi vincitori reclutandoli fra le élite e milioni di perdenti nel popolo. Il popolo, però, spiega Alain de Benoist, oramai «comprende che la globalizzazione economica apre la strada alla globalizzazione culturale», suscitando continue frammentazioni sociali. Filosofo, saggista, autore di una mole sterminata di articoli e di più di ottanta libri tradotti in quindici lingue, fondatore sul finire degli anni Settanta del movimento della Nuova Destra (Nouvelle Droite), Alain de Benoist ha da poco pubblicato un lavoro, Populismo, tradotto da Giuseppe Giaccio per Arianna editrice, che affronta di petto la questione. Lo abbiamo incontrato.
Il momento populista
Lei parla di un “momento populista”. Di che cosa si tratta?
Da diversi decenni, in tutti i paesi occidentali, assistiamo all’ascesa di partiti e movimenti populisti. Potremmo affermare che il populismo è l’unico, vero fenomeno politico nuovo della fine del XX e dell’inizio del XXI secolo. Non è pertanto un’esagerazione parlare di un « momento populista »: oggi viviamo in un momento simile. Ma parlare di « momento populista » è anche un modo di dire che questo è, appunto, un momento che non potrà durare in eterno. Quando ci troveremo a fare un bilancio di questo momento, il bilancio sarà inevitabilmente pieno di contrasti.
Come intendere, oggi, un concetto largamente abusato come « populismo »?
Nella vita pubblica, « populismo » è diventato un insulto che alcune persone usano per qualsiasi cosa. Ma è assolutamente possibile darne una definizione più rigorosa. Il populismo è un modo di articolare la domanda politica e sociale che parte dalla base e, da una prospettiva contro-egemonica, si leva contro le élites (politiche, finanziarie o mediatiche) considerate come un’oligarchia separata dal popolo. Un’oligarchia preoccupata unicamente dei propri interessi. Da questo comprendiamo come il populismo sostituisca la vecchia divisione destra-sinistra, che è una divisione « orizzontale », con una divisione « verticale »: quelli che stanno sotto, contro quelli che stanno sopra. Aggiungiamo inoltre che il popolismo non è una ideologia (può conciliarsi praticamente con tutte le ideologie), ma è soprattutto uno stile. Le cause del fenomeno sono d’altronde ben note: l’obsolescenza della divisione destra-sinistra dovuta al « riorientamento » dell’offerta partitocratica; crisi generalizzata di fiducia verso una nuova classe sempre più transnazionale e deterritorializzata, effetti deleteri della globalizzazione e dell’immigrazione straniera sulle classi popolari che ne sono le prime vittime, crisi dei punti di riferimento e perdita di senso, divario fra periferie e megalopoli mondializzate…
Il populismo è un modo di articolare la domanda politica e sociale che parte dalla base e, da una prospettiva contro-egemonica, si leva contro le élites (politiche, finanziarie o mediatiche) considerate come un’oligarchia separata dal popolo. Un’oligarchia preoccupata unicamente dei propri interessi.
Crede che il populismo possa istituzionalizzarsi nello spazio europeo?
È ancora presto per dirlo. Ma, nella misura in cui il populismo è anche un sintomo di disfunzioni e limiti della democrazia liberale, dovrebbe tradursi in nuove procedure di democrazia partecipativa o di democrazia diretta. In alcuni paesi potrebbe inoltre contribuire a quella che, oggi, si chiama « democrazia illiberale », ossia regimi che non riassumono la vita democratica nella vita parlamentare e hanno capito che i principi del liberalismo e della democrazia sono, in ultima analisi, inconciliabili tra loro. L’antropologia liberale poggia sulla libertà dell’individuo, la democrazia sull’uguaglianza dei cittadini. Ecco perché Carl Schmitt affermava che la democrazia è tanto più democratica quanto meno è liberale!
Pensare un popolo
Le élites europee sembrano incapaci di pensare l’idea stessa di popolo. Si muovono fra astrazioni (cittadini, elettori, etc.). Per lei, che cos’è un popolo?
Esistono tradizionalmente tre modi di concepire il popolo: il popolo come ethnos, vale a dire come erede di una cultura e di una storia; il popolo come démos ,come potenza politica sovrana detentrice della legittimità e del potere costituente; il popolo come plebs, ovvero l’insieme di tutte le classi popolari (che tendono ad essere unite oggi dalle classi medie nel processo di comune declassamento). A mio avviso, un vero populismo, se davvero vuole popolare la democrazia, deve tener conto di questi tre modi di concepire il popolo. Ignorare l’ethnos significa fare un’astrazione da un passato che ha contribuito a modellare il senso di comune appartenzenza. Ignorare il demosequivarrebbe a ricadere nell’impolitico. Ignorare la plebs vuol dire illudersi che le classi sociali siano insignificanti.
Esistono tradizionalmente tre modi di concepire il popolo: il popolo come ethnos, vale a dire come erede di una cultura e di una storia; il popolo come démos ,come potenza politica sovrana detentrice della legittimità e del potere costituente; il popolo come plebs, ovvero l’insieme di tutte le classi popolari (che tendono ad essere unite oggi dalle classi medie nel processo di comune declassamento). A mio avviso, un vero populismo, se davvero vuole popolare la democrazia, deve tener conto di questi tre modi di concepire il popolo
In Italia il M5S, classificato come populista, ha mostrato qualche difficoltà quando si è trattato di andare oltre il « momento elettorale ». C’è chi parla di un populismo senza popolo…
Conosco poco le attività del Movimento 5 Stelle ma ho comunque l’impressione che sia uno dei movimenti più autenticamente populisti di questi nostri giorni. Le difficoltà che incontra oggi mi sembrano legate soprattutto al cambiamento di posizioni che non sempre sono stati ben compresi. In ogni caso, il populismo nel senso più ampio non si riduce ai partiti e ai movimenti populisti. Soprattutto perché l’astensione è particolarmente forte nelle classi popolari. Dobbiamo fare i conti anche con quello che Vincent Coussedière chiama « populismo del popolo »: un populismo che si esprime in un atteggiamento generale, più che durante le elezioni, ma che non meno si traduce in una potente di aspirazione dei popoli a mantenere i propri stili di vita e ad essere liberi di decidere i termini della loro riproduzione sociale.
Cosa pensa della proposta di Laclau e Chantal Mouffe sulla possibilità di « inventare un popolo »?
Più che di « inventare un popolo », Ernesto Laclau e Chantal Mouffe propongono di « costruire » (o ricostruire) un popolo. Non sono in disaccordo totale con questa idea, che ha il merito di reagire contro una concezione essenzialista del popolo (il « popolo eterno »), ma al tempo stesso credo che non si costruisca mai niente da niente.
Questo vale per gli individui. E vale anche per i popoli. È necessario ricordare che l’identità collettiva è sempre chiamata a conoscere trasformazioni e metamorfosi (un’identità bloccata è un’identità morta), ma sarebbe un errore credere che l’identità sia una pura chimera. Prima di ogni volontà presente, c’è sempre qualcosa che è già là.
Sovranità e indipendenza
Il conflitto tra sovranità e autodeterminazione diventa giorno per giorno più complesso. Lo vediamo in Catalogna…
Coloro che difendono il diritto dei catalani all’autodeterminazione sono generalmente favorevoli all’indipendenza della Catalogna. Al contrario, quelli che lo negano sono generalmente sostenitori dell’unità nazionale. Io non rientro in nessuna delle due categorie. A livello di principi, credo che un popolo dovrebbe sempre essere lasciato libero di decidere il proprio destino: questo vale per i catalani come per i corsi o per i bretoni. Ma non sono sicuro che l’indipendenza sia la scelta migliore che i catalani possano fare oggi.
Che cosa intendiamo quando parliamo di « indipendenza »? Anche su questo concetto i malintesi sono tanti…
La parola « indipendenza » oggi non ha lo stesso significato di un secolo o due fa. Lo stesso vale per le frontiere che, una volta, garantivano la continuità dell’identità dei popoli e che, oggi, sempre più, non fermano proprio nulla. Per effetto della costruzione europea e della globalizzazione, anche i « grandi » paesi hanno visto scomparire progressivamente fasce di sovranità (politica, parlamentare, finanziaria, fiscale, economica, militare…). Non vedo come i piccoli potrebbero resistere: si trovebbero ancor più minacciati.
Eppure anche l’Italia del Nord (Lombardia e Veneto) si muove in questa direzione… E c’è chi ha scomodato espressioni forti come « balcanizzazione dell’Europa », forse ricordando ciò che accadde con la « secessione » slovena garantita da Austria e Germania. Una secessione che portò all’implosione del sistema-Jugoslavia…
Non credo sia un paragone azzeccato. Parlare di « balcanizzazione » o citare gli esempi del Libano o della ex-Jugoslavia è una semplificazione linguistica. Faremmo meglio a mettere in discussione la dialettica della globalizzazione, che da un lato unifica gli stili di vita su scala planeteria e, dall’altro, suscita nuove frammentazioni come reazione. Dovremmo domandarci se il fiorire dei separatismi non sia il risultato di una crisi generalizzata dello Stato nazionale, crisi che risale almeno al 1930, e del fatto che molte nazioni hanno perso ogni attrattiva per le regioni che le compongono. L’abbandono dei grandi progetti collettivi, la mediocrità della classe politica e la corruzione hanno svolto anch’esse il loro ruolo nel disincanto e nel « disamore ». In cosa, oggi, le nazioni sanno ancora ispirare entusiasmo? Certe nazioni si lamentano che non sono più amate. Dovrebbero chiedersi in che cosa, oggi, potrebbero esserlo.
Corpi intermedi e bene comune
Ci ritroviamo così senza sinistra, né destra, in un momento in cui il populismo non è, ma potrebbe istituzionalizzarsi. Dovremmo ripensare l’idea di solidarietà e di corpi intermedi, se vogliamo ricomporre una rete comune…
Ricette pronte non ce ne sono. Ridare importanza ai corpi intermedi e stimolare la solidarietà sociale richiede, prima di tutto, che sia compiuta una profonda trasformazione degli animi. Per prima cosa bisogna riabilitare la nozione di comune (il ruolo fondamentale della politica è produrre comune) e rompere con un’antropologia liberale che fa della massimizzazione degli interessi privati da parte dell’individuo egoista il motore di ogni attività umana. Un’antropologia che si immagina una società regolata unicamente dal gioco del contratto giuridico e dallo scambio commerciale. A questo proposito Serge Latouche molto giustamente parla di una necessaria « decolonizzazione dell’immaginario » economico e mercantile. Quando questa trasformazione sarà compiuta, potremo generalizzare esperienze di monete locali, reti cooperative, rilocalizzazione, filiere corte. Per ora, tutto ha ancora carattere sperimentale.
Mentre noi parliamo di corpi intermedi, però, stiamo andando sempre più verso un’Europa franco-carolingia trainata dalla Merkel, rispetto a un’Europa mediterranea…
Il discorso regge, ma penso sia una semplificazione cercare di spiegare tutti i problemi attuali, a partire da quelli dell’Europa del Sud, parlando della « Germania di Angela Merkel ». La politica della Merkel, in effetti, non è che l’attuazione di un programma di austerità per le classi medie e popolari che corrisponde alle esigenze della logica del profitto capitalista e liberale. Lo stesso vale per l’imposizione della moneta unica, la crescita della disoccupazione, il lavoro precario e così via. Bisogna essere sempre consapevoli che i sistemi impersonali sono all’opera dietro le iniziative di questo o di quel leader politico. Se Angela Merkel scomparisse domani, sarebbe immediatamente rimpiazzata da quelcuno in grado di procedere nella stessa direzione. Con Macron vale la stessa logica. Attaccare la Merkel senza attaccare il sistema capitalistico di cui è uno dei rappresentanti significa perdere di vista l’essenziale.
D’altra parte, non bisogna dimenticare in quale condizione si trovava la Germania dopo l’ultimo conflitto mondiale. Non era che un campo di rovine. Successivamente, fino agli anni Ottanta e Novanta, la Germania è (ri)diventata un gigante economico, restando però un nano politico. Il ruolo centrale che gioca oggi in Europa è la conseguenza della sua graduale crescita di potenza. Piuttosto che lamentarsi di questa potenza, altri Paesi dovrebbero interrogarsi sulle cause delle loro debolezze: perché non c’è mai nessuno più forte della debolezza degli altri!